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IL REALISMO MAGICO DI MARIO GIACOMELLI

Fotografie dalla civica raccolta

Con questa mostra permanente allestita a Palazzo del Duca, Senigallia, città della fotografia, rende omaggio al grande maestro Mario Giacomelli  (Senigallia, 1 agosto 1925 – 25 novembre 2000) grazie alla collaborazione degli Archivi Giacomelli – Rita e Simone Giacomelli con i suoi direttori Simone Giacomelli e Katiuscia Biondi Gacomelli.

A vent’anni dalla morte del grande fotografo, avvenuta il 25 novembre del 2000, la mostra di Senigallia ripercorre con 58 scatti la poesia e la vita di Giacomelli.

“Non mi interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade [] Ogni immagine è il ritratto mio, come se avessi fotografato me stesso” questo è per lui la fotografia: nessuna velleità di documentare, ma ricerca di se stessi e del proprio rapporto con il mondo.

 “La fotografia è una cosa semplice. A condizione di avere qualcosa da dire” è con queste parole che Giacomelli definisce la sua arte.

“Per me che uso la macchina fotografica è interessante uscire dal piano orizzontale della realtà, avere la possibilità di un dialogo stimolante perché le immagini abbiano un respiro irripetibile.

Riscrivere le cose cambiando il segno, la conoscenza abituale dell’oggetto, dare alla fotografia una pulsazione emozionale tutta nuova.

Il linguaggio diventa traccia, necessità, spirito dove la forma si sprigiona non dall’esterno, ma dall’interno in un processo creativo.

Lo sfocato, il mosso, la grana, il bianco mangiato, il nero chiuso sono come esplosione del pensiero che dà durata all’immagine, perché si spiritualizzi in armonia con la materia, con la realtà, per documentare  l’interiorità, il dramma della vita.

Nelle mie foto vorrei che ci fosse una tensione tra luce e neri ripetuta fino a significare.

Prima di ogni scatto c’è uno scambio silenzioso tra oggetto e anima, c’è un accordo perché la realtà non esca come da una fotocopiatrice, ma venga bloccata in un tempo senza tempo per sviluppare all’infinito la poesia dello sguardo che è per me forma e segno dell’inconscio.

Il linguaggio è così la coscienza espressiva interna che ha accarezzato la realtà pur rimanendo fuori, è l’attimo originale, testimone di una realtà tutta mia, un prelievo fatto sotto la pelle dell’oggetto, guidato fuori dalle regole per una libertà che è anche allargamento alle possibilità del reale.”

A partire dai primi anni Cinquanta le sue fotografie sono entrate nella storia della fotografia italiana. “Ho cominciato a vedere le macchie sul muro, i fili di ferro. Sono meravigliosi. Tutto è bello”. Così Mario Giacomelli descrive quando e come divenne fotografo, una passione portata avanti in parallelo con il lavoro di tipografo iniziato a 13 anni, dopo la morte del padre, in quella “Tipografia Marchigiana” di cui diverrà comproprietario e sarà definitivamente chiusa nel 1999, un anno prima della morte del maestro.

Si avvicina da amatore al mondo della fotografia crescendo sotto la guida di Giuseppe Cavalli, avvocato, uomo di profonda cultura ed esperto di tecnica e storia della fotografia, fondatore e fucina dell’Associazione Fotografica Misa dove Giacomelli è cresciuto.

Dopo una serie di prime fotografie a titolo, Giacomelli inizia ad affrontare i grandi temi che ne faranno un caso fotografico.

“Pur amando e sentendomi un realista, pur definendo la poesia come comunicazione, credendo nella fotografia che documenta, ho scoperto [ … ] che la poesia è il linguaggio col quale credo di realizzarmi e di poter fuggire dalle formule delle banalità quotidiane. Lo spazio non è più appiattito, le cose che vedevo sempre uguali, le stesse strade, la stessa gente della mia città, pensando alla poesia, ora mi sembrano modificate, tutto sa di avventura che mi coinvolge in esperienze nuove, mi fa vivere in territori immaginari”.

Giacomelli proveniva da brevi esperienze di pittore e poeta ma è con la fotografia che compie la sua riflessione frutto di esplorazione sui temi della vita e della morte, della solitudine, della vecchiaia, dei giovani, del mondo contadino e del paesaggio, in modo particolare del “suo” paesaggio, quello delle Marche.

Fotografo non professionista per scelta, ma “sublime dilettante”, è mosso da uno spirito investigativo con il quale riesce a scardinare i tradizionali dogmi del linguaggio fotografico impostato sulla classicità dell’immagine; i toni contrastati, i mossi, la libertà anarchica nella composizione, l’eclettismo della ripresa con i quali riusciva a toccare varie corde stilistiche, dalle composizioni quasi astratte a quelle più realistiche, sono tutti elementi di un grande patrimonio visivo che collocano la sua opera ai vertici dell’espressività fotografica.

Tutta la sua immensa opera è suddivisa in “serie”, sviluppata in gruppi di immagini; fu lo stesso autore a sottolineare l’importanza della serie nel suo lavoro:

“Per me non è importante la foto singola ma la serie, il racconto … Quasi sempre mi capita di vedere le foto prima di farle”.

Il suo criterio di scelta artistica è basato sulla creazione di un percorso interno ad ogni serie.

Già nel 1954, mentre continuava a proporre fotografie a titolo, avviò le raccolte sul mondo degli anziani disagiati e prossimi all’ultimo passo, frequentando l’ospizi di Senigallia dove lavorava sua madre. Questi “racconti”, tra i più interessanti e forti di Giacomelli, rivelano un narratore ricco di contrasti e di visioni,  che descrive situazioni angosciose con un senso estetico della morte non trovabile in altre opere di fotografi a lui contemporanei. Il lavoro negli ospizi fu un lento peregrinare nella memoria o forse un’esigenza per ritrovare le atmosfere del proprio vissuto; diceva di quei suoi lavori:  “… volevo rendere quello che avevo dentro di me: la paura d’invecchiare, non di morire, il disgusto per il prezzo da pagare alla vita.”  L’esperienza durò fino al 1968, riprendendo poi all’inizio degli anni Ottanta. 

Negli anni tra il 1954 e il 1956 da vita alla serie “Vita d’ospizio che ritornerà ne “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” (1966-1968, titolo di una poesia di Cesare Pavese). Fin da allora Giacomelli è consapevole che le rughe, i solchi del volto dei vecchi dell’ospizio sono i suoi, quelli della nostra umanità e della nostra natura tutte simili alle fenditure della madre terra, o alle lacerazione dell’albero; comprende l’universalità delle cose, le pulsioni, le materie, gli umori, i sentimenti, i ricordi nel tentativo di cogliere il mondo nella sua essenzialità, alla “sorgente della vita”.

Nel 1957 lavora sulla serie “Scanno” inserita nel 1963 da John Szarkowsky in “Looking at Photographs” catalogo della collezione del Museum of Modern Art di New York (MoMA), con la quale Giacomelli si affaccia sulla ribalta mondiale ottenendo i più ampi consensi di pubblico e critica.

Sempre del 1957 è la serie “Lourdes”, alla quale seguono, nel 1958 “Zingari” e “Puglia”, nel 1959, “Loreto” (poi ripresa nel 1995), mentre del 1961 sono le immagini di “Mattatoio”.

Tra il 1961 e il 1963 completa la serie “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”, titolo tratto da una poesia di Padre David Maria Turoldo, in cui la famosa e irreale serie dei “pretini”, fermati con le toghe gonfie come piccole mongolfiere in immagini sospese, appare la trasgressione iconica di un Giacomelli che raggiunge il vertice dell’astrazione.

Negli anni tra il 1964 e il 1966 realizza “La buona terra”, seguita da “Caroline Branson” del 1971-1973, lavoro ispirato a “Spoon River Antology” di Edgar Lee Masters, e poi la grande serie dei paesaggi “Presa di coscienza sulla natura” (1980-1994).

A proposito di questi soggetti fotografici, disse: “Io non ritraggo il paesaggio, ma i segni, le memorie dell’esistenza di un “mio” paesaggio. Non voglio che sia subito identificato, preferisco che si pensi a certi segni, alle pieghe-rughe che l’uomo ha nelle sue mani. Un tempo questo pensare al contadino mi affascinava, perché sentivo il paesaggio come un grande reportage, puro, forte, tutto ancora da scoprire, da vivere. Mi sono accorto che fotografavo invece la mia interiorità, attraverso il paesaggio trovavo la mia anima. Ci sono stati altri momenti in cui il paesaggio era qualche cosa di ancora diverso e aumentavano le mie contraddizioni. La terra ha i suoi segni, delle piaghe, che mi chiedevano di essere fotografati, così almeno mi è sembrato. I segni erano disposti in maniera che l’anima potesse godere, segni interiori, riflessi come azione creativa, stordimento e allo stesso tempo conoscenza, distruzione che costruisce, terra come percorso di voglie, di sensibilità, di penetrazioni, di orgasmi perché non si ripetano le cose visibili. Forse io non ho mai fotografato il paesaggio, l’ho amato”. Su testi del poeta Francesco Permunian crea “Il Teatro della neve” (1985-1987) seguita da “Ninna Nanna” e “A Silvia” (1987-1988). Tra i lavori più recenti: “Il mare dei miei ricordi” (1991-1994), “Io sono nessuno” (1994-1995) su testi di Emily Dickinson, fino ad arrivare a “Bando” (1998-1999) ciclo di immagini in serie di 4 ispirate ad una poesia di Sergio Corazzini e “Questo ricordo lo vorrei raccontare” (1998-2000).